Totò tra la gente
Totò tra la gente

Una sera degli anni ’50, a casa di Giacomo Furia, il «Pinturicchio» squattrinato della «Banda degli onesti», una partita di scopone vedeva coinvolti: Pasquale De Filippo – cugino di Eduardo e Peppino – il produttore Gilberto Carbone, gli attori Aldo Giuffrè e Armando Curcio. Alle tre e qualcosa, tra pizze fritte e primiere, il gioco fu interrotto da una telefonata. «Di scatto – ricorda Furia nel libro di Michele Avitabile «Le maggiorate, il Principe e l’ultimo degli onesti» – osservammo l’apparecchio impauriti e sconvolti. Chi mi chiamava a quell’ora? “Pronto, qui è la Questura centrale – disse una voce – abbiamo saputo che state gestendo una bisca clandestina!”. Un brivido freddo m’attraversò il corpo. Durò un attimo, per fortuna. Una risata di divertimento mi liberò dall’incubo. Era Totò. “Giacumì, state ancora giocando? Volevo sapere come se la cavava Pasqualino”».

Dal balcone del rione Sanità al trono di Bisanzio, dal lurido camerino del Teatro Orfeo di Napoli a quello luccicante del Sistina di Roma, dal San Giovanni Decollato di Amleto Palermi al San Francesco di Uccellacci e Uccellini di Pasolini, il principe Antonio de Curtis, durante la sua ascesa, nonostante in privato fosse parecchio orso, continuamente distratto da sottane, di rado sorridente, alimentò sempre le sue amicizie di lazzi, confidenze, nobili gesti e slanci di cuore. «Totò Bontà» potrebbe essere il titolo del film che il Genio del Riso girò per tutta la vita. Così parsimonioso per se stesso, spalancava anima e portafoglio per gli amici della prima e dell’ultima ora. Una generosità istintiva e riservata che, dopo la sua morte, divenne leggendaria. Amici clochard che ricevevano bigliettoni da mille lire; amici camerieri che incassavano mance poderose; amici giornalisti come Andrea De Pino, stralunato redattore senza macchina da scrivere che, un giorno, tornato a casa, ne trovò una, dono del Principe. Se Totò, in tutta la sua opera d’attore, fu la sublime incarnazione di Pulcinella perché, come disse Mimì Rea, «tende a una sola meta: ottenere qualcosa», fuori dalle scene somigliò ad un Garrone con sguessera. Un tipo magnanimo, tutto casa e camerino. La sua banda degli amici era formata da conti, marchesi, pezzenti, produttori («Il produttore deve guadagnare molto – diceva – se non guadagna fallisce; se fallisce io non lavoro più»), fiorai, perdigiorno, portieri d’albergo, tabaccai, «spalle» e comparse, Anna Magnani («tu sei il mio grande amore artistico») e Donna Lucia (custode del Teatro Politeama di Napoli), cani, gatti e veterinari, qualche critico (Cesare Zavattini su tutti), due Pasqualini, nessun caporale.

A proposito dei Pasqualini: uno fu il suo barbiere, grazie al quale riuscì a strappare, agli inizi della carriera, una scrittura di prestigio al Teatro Umberto; l’altro fu la pecora nera della famiglia De Filippo, di giorno venditore di penne stilografiche alla ferrovia di Napoli, di notte, invece, smidollato pokerista senza assi nella manica. Totò gli voleva bene, anche se si divertiva, di tanto in tanto, a provocarlo, soprattutto quando si parlava dello scopone. Uno dei motivi del contendere era il settebello: per Pasqualino era una carta come tutte, per il principe de Curtis era la regina del mazzo perché valeva un punto. «Ogni volta – racconta Giacomo Furia – la discussione tirava sempre per le lunghe. Finché un giorno Totò non mi confessò: «Giacumì, mi devi credere, a Pasquale ciaggià combina ‘o servizio!”. Tempo una settimana e tutto era pronto per lo scherzo. Mentre passeggiavamo per le vie di Roma, vedemmo sorvolare un aeroplano che lanciava migliaia di volantini. Vi era scritto: “Il settebello è una carta. Il nuovo grande libro di Pasquale De Filippo”. Totò, sfinito dal divertimento, mi disse: “Hai visto che l’aggio combinato?”».

Altra pulcinellata degna di nota fu quella che il Principe ordì nei confronti del fedele autista Carlo Cafiero, reo, dopo aver ascoltato per la prima volta «Malafemmena», di averla definita una lagna. La punizione di Totò fu esemplare: obbligò uno spaesato Cafiero a cantarla nel ristorante «Giacomino» alla presenza degli amici Eduardo De Filippo, Sofia Loren, Vittorio De Sica e Paolo Stoppa.
«La vita è tutta una grande pulcinellata», ripeteva spesso Peppino De Filippo, compagno di ventura e sventura del Principe, sia sul set che nella vita. Abbonda l’aneddotica sulla coppia che più di ogni altra regalò, tra il ’56 e il ’62, esaltanti momenti comici. Una sera del 1943, ad esempio, si sparse la voce di un attentato ad Hitler. Totò, prima di salire sul palcoscenico, decise di stravolgere il copione di «Che ti sei messo in testa?» e di presentarsi in scena con baffetti e ciuffo incerottato, improvvisando una camminata claudicante. La trovata piacque al pubblico, ma non ai nazisti. Un colonnello tedesco, suo amico ed estimatore, gli confidò che il mattino seguente lo avrebbero arrestato insieme ai fratelli De Filippo. La soffiata fu tempestiva: il Principe riuscì ad avvertire e salvare Peppino. Un’amicizia profonda, dunque, che rischiava di rompersi solo per la politica. Sul set, mentre consumavano un frugale pasto, capitò così che De Filippo confidò a Totò, monarchico convinto, che aveva votato comunista. Il principe s’infuriò a tal punto da gettare per aria cibo e bicchieri gridando all’amico: «Ah no, Peppi’ questo proprio non me lo dovevi fare!».

Se il partito li divideva, ad unirli era l’amore per gli animali. «Un giorno – raccontò De Filippo – venne a visitare il piccolo cimitero dei miei cagnolini, lesse le incisioni sulle piccole lapidi, si commosse e mi disse: “Dammi un bacio… mi hai fatto chiagnere”». Forse uno dei capitoli più incredibili di «Totò Bontà» fu proprio quello dedicato ai cani e ai gatti. Il Principe, aiutato dal veterinario Vincenzo Mascia, pur tra mille difficoltà, fece costruire un confortevole canile, tutto dipinto di celeste, che chiamò «Ospizio dei trovatelli», in cui trovarono casa 245 randagi. «In realtà – ricorda il dottor Mascia nel libro «Napoletani si nasceva» di Vittorio Paliotti – chiunque, nella zona, volesse liberarsi di un cane, veniva nottetempo a depositarlo nei pressi del nostro rifugio. Totò veniva almeno un paio di volte alla settimana, per sorvegliare che tutto procedesse con ordine e per pagare i fornitori. Davanti ai cuccioli, si commuoveva sempre».
Con il pallino del blasone, Il Principe della risata conferì i titoli di barone al cane lupo e di visconte al barboncino. Scrisse poesie per lo scodinzolante Dick e per Bianchina, la gatta del vico Paradiso. Non si dette pace finché Mosè, randagio senza zampette posteriori, non ritornò a camminare grazie ad una protesi con le ruote che commissionò a due tecnici dell’università. «Prima le bestie e poi gli uomini» dirà in un film. Forse, le confidenze più intime Totò le fece solo agli animali.

Crede di essere raccomandato dalle idee: capita ogni tanto che ci credano anche gli altri. Giornalista per vocazione ed editore per invocazione, non riesce a levarsi il vizio del sorriso. Assediato da seccatori e stucchevoli scrittori, avrebbe bisogno di una segretaria, possibilmente equilibrata e con un epico lato b, ma non è ancora pronto per questa decisiva prova di maturità. Con sé ha sempre un anello ricavato dal nocciolo di una pesca. È considerato un soggetto pericoloso perché continua a scrivere poesie. Quando s’incazza è solito dire: «Io, sulle mie cose non faccio testo».

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